Francesca Catalucci e il volontariato: “I bambini africani ti rubano il cuore”

 

“Quando ero bambina dicevo: da grande voglio fare il medico e aiutare i bambini neri, quelli con il pancione. Poi sono diventato ingegnere – architetto, ma la seconda parte della frase cerco di metterla in pratica”. A parlare è Francesca Catalucci, 30 anni, giocatrice di pallavolo e volontaria in Malawi per l’associazione perugina ‘Amici del Malawi’. Due anni di seguito ha preso ed è partita – per un mese – per andare in Africa, con l’associazione, ad aiutare i bambini neri.

La voglia di aiutare il prossimo è dentro l’anima di Francesca, che entrambe le volte è tornata cambiata dalle esperienze a contatto con villaggi, mamme, ma anche orfani, bambini che a 15 anni non sanno scrivere il proprio nome e altri che invece riescono a farsi capire parlando in inglese: “Ho potuto coronare il mio sogno del volontariato quando ho iniziato a lavorare e sono diventata indipendente anche economicamente. L’Associazione l’ho scoperta grazie a un’amica che, anni prima, aveva partecipato a una di queste missioni. Mi sono informata e ho capito che era proprio quello che volevo fare, il programma rispecchiava la mia idea di aiuto per gli altri”.

L’Associazione perugina, in Malawi, ha diversi progetti attivi: ha costruito cinque asili e orfanotrofi, un Politecnico e due ospedali. A marzo si vorrebbe aprire il reparto di Malattie infettive. È stato realizzato anche un oratorio all’interno della comunità. “C’è una struttura che ogni anno ospita i volontari, io sono nel gruppo dei più giovani e son partita, entrambi gli anni, a metà settembre per tornare a metà ottobre. È il periodo in cui inizia l’asilo, dunque portiamo indumenti e materiale didattico, oltre a visitare gli asili stessi”.

Il secondo anno, la giocatrice della Tuder Volley (serie C) e una sua amica hanno affrontato anche un’esperienza diversa: “Siamo stati una settimana in un orfanotrofio non gestito dell’Associazione. Ci prendevamo cura dei bambini da 0 a 3 anni, da quando si svegliavano a quando andavano a dormire”. Qui emerge tutta la sensibilità di questa ‘grande’ donna: “I bambini si legano a te in modo smisurata. Devi stare attento a non affezionarti troppo, ma non ci riesci, perché poi loro continuano a cercarti quando si torna in Italia. La signora che ci scrive per aggiornarci quando siamo a casa, ci dice che ci chiamano, ci vogliono”. Non solo: “Quando torni a casa è un massacro. Il pensiero va sempre là, ti restano dentro i sorrisi spontanei, gli occhi dei bambini del Malawi. Ti resta nel cuore la manina che ti danno. Loro si affidano completamente a te, ma quando finisce il mese di volontariato, ti accorgi che è più quello che hai ricevuto di quello che hai dato”.

Impossibile restare in contatto via Skype: “Nei villaggi sperduti non c’è nulla, neanche internet. Quando tornavamo dalle attività giornaliere, tipo ritinteggiare un ospedale, loro ci prendevano letteralmente per mano e facevamo lunghe passeggiate. Non stanno quasi mai con i genitori, a casa restano le mamme mentre gli uomini sono tutti fuori a lavorare, agricoltura o baratto nei mercati. I ragazzini più grandi si prendono cura dei più piccoli. Quando torni a casa, ti accorgi che dai valore a cose che prima consideravi inutili o insignificanti”. Un’altra realtà, quella africana: “Il tempo pare scorrere pianissimo, nessuno si affanna. Non c’è fretta”. Purtroppo non tutti i bambini possono andare a scuola: “La retta annuale è di 1,10 euro in totale, ma alcune famiglie non ce la fanno a pagarla e così i figli non imparano a leggere e a scrivere. Si vede la differenza tra chi è scolarizzato e chi no”.

Nella testa e nell’anima di Francesca c’è la speranza di fare un’esperienza che duri anche più di un mese: “Perché forse l’attività di volontariato è la cosa di cui vado più fiera nella mia vita. La mattina, quando sono in Africa, non vedo l’ora di alzarmi per fare qualcosa. Il lavoro mi permette di prendermi un mese – sono libera professionista – ma sarebbe difficile rubare ancora più tempo per stare di più in missione”. La famiglia ha storto un po’ il naso, ma alla fine ha accettato il desiderio della figlia: “Sa che volevo fare questo fin da quando ero piccola. Loro poi si sono un po’ preoccupati, volevano sapere dove andavo, con chi. Quando però li ho messi di fronte al fatto compiuto, alla preoccupazione (lecita) poco alla volta si è sostituita la loro consapevolezza che stavo facendo una cosa che mi faceva bene. In particolare quando sono tornata e ho raccontato cosa aveva significato per me l’esperienza laggiù”.

Francesca Catalucci convive, al momento non ha figli, ma spiega: “Fortunatamente il mio fidanzato mi ha sempre capito e appoggiato. Ha visto quanto mi sono legata non solo ai bambini, ma pure ad alcune mamme del Malawi. Un aneddoto: tornate al villaggio un anno dopo, le mamme ci hanno riconosciuto e chiamato per nome. Quella con cui ho stretto un rapporto più importante, ha lavato il figlio e poi me l’ha portato subito da tenere in braccio. Ecco, il mio compagno ha vissuto tutto questo e mi appoggia”. La remora è una: “Penso che oggi per me sia più facile andare in Africa perché non ho ancora un figlio o una famiglia. Ecco perché, finché posso, cerco di sfruttare le occasioni. Avendo una famiglia, avrei qualcosa in più a cui pensare”.

Torna a parlare dell’esperienza, anche al telefono si può captare che le brillano gli occhi: “I bambini volevano le fotografie con il telefonino, non sono abituati. Poi magari riconoscevano l’amichetto, ma non loro stessi perché non sono abituati a guardarsi”. Un pick-up rosso dell’Associazione il mezzo per spostarsi la mattina dalla struttura agli asili: “Alcuni erano dietro casa, altri distanti pure 20, 60 o 80 chilometri. Siccome solo la strada principale è asfaltata e le altre sono in terra rossa, ci mettevamo anche 3-4 ore per arrivare. Partivamo prestissimo la mattina”.

Non si può non scivolare sul discorso della cooperante italiana rapita in Kenya: “Il Malawi non è il Kenya, è un Paese tranquillo perché molto povero. Non ci sono rischi di violenza o estremisti. Ma poi, parliamoci chiaro: a oggi non esiste un posto privo di rischi visto il periodo che stiamo vivendo. Purtroppo, c’è chi ha scelto anche questo sequestro per esprimere commenti negativi. È la voglia di trovare il male in ogni cosa, di puntare il dito sempre contro qualcuno. Bisogna per forza giudicare oggi. Non andrebbero presi neanche in considerazione questi commenti per non dare risalto”. Non sa e non esprime pareri sulla volontaria milanese rapita: “Non so se è a scopo di ricatto o per i contrasti interni. All’inizio, in particolare, trapelavano poche notizie e questo credo sia rispettoso nei confronti della famiglia. La speranza è che la rilascino, che venga ritrovata presto. Se io sono più preoccupata? Magari qualche pensiero in più viene, ma poi ragioni e dici: se c’è stato un attentato terroristico in una città, tu decidi di non andarci perché è pericoloso? Sì, ma poi può capitare la stessa cosa pure mentre attraversi la strada a casa tua. Io mi ci ritrovo molto nella vita della ragazza rapita in Kenya, in me è sorta solidarietà perché vedi con altri occhi ciò che hai vissuto anche tu come esperienza”.

Un ultimo discorso sulla pallavolo: “Ci gioco da 21 anni, sono arrivata fino in B1, ma purtroppo sono stata bersagliata dagli infortuni: tre interventi ai legamenti. Poi ho fatto altro, dall’università al lavoro, al volontariato. Nella vita, le priorità cambiano. Ora, da 3-4 anni, sono tra B2 e serie C. Penso che sia l’ultimo anno questo, anche se l’ho detto anche altre volte. Ma forse oggi sono più sicura: partite o allenamenti mi tolgono la possibilità di fare qualcosa in più all’interno di Amici del Malawi, di ricoprire magari un ruolo (me l’hanno già chiesto)”. E un futuro che coniughi l’amore per i bambini e la pallavolo, tipo l’allenatrice delle giovanili? “Non so se sono portata e se mi piacerebbe. Ma nella vita mai dire mai”. Quello che conta è che Francesca in ogni cosa che fa ci mette il cuore. E lo apre anche volentieri. Cosa rara oggi. Ecco perché quei bimbi del villaggio si sono affezionati così a lei.