Premetto che non avevo in animo di pronunciarmi pubblicamente sul prossimo referendum, considerando più proficuo dedicarmi a elaborare e divulgare riflessioni metapolitiche, piuttosto che occuparmi di politica ‘spicciola’ (a cui mi devo dedicare a sufficienza professionalmente).
A farmi cambiare atteggiamento è l’insopportabile valanga di comparsate massmediali di Renzi, con annesse sbruffonerie, lezioncine imparate a memoria, trovate di marketing, falsità, furberie, sciocchezze a cui giornali e tv – pur assunte in dosi omeopatiche – mi costringono. Ed, insieme, la constatazione che alcuni dei luoghi comuni della narrativa renziana stanno facendo breccia in non poche delle persone con cui mi capita di scambiare qualche parola in argomento.
Di conseguenza, ho deciso di chiarire alcune delle molte ragioni che mi faranno votare NO e di aggiungere qualche considerazione sul perché suppongo e temo che mi troverò, ancora una volta, in minoranza.
In estrema sintesi:
– trovo questa riforma demagogica, ingannevole, raffazzonata e di netto ostacolo a miglioramenti futuri dell’assetto istituzionale, per molte delle sue caratteristiche. Ne indico solo alcune.
Dietro la facile propaganda sul (minimo) “taglio dei costi della politica” e sulla “maggiore efficienza del sistema”, la trasformazione del Senato in una microcamera di nominati (compresi – allucinante! – membri scelti dal Presidente della Repubblica, che perpetuano l’obbrobrio dei senatori a vita) non fa altro che ampliare il potere di occupazione di ogni spazio decisionale del governo, che già l’osceno 55% di seggi concesso dalla legge elettorale – e la prassi invalsa negli ultimi due anni (vedi controllo ormai totale della Rai) – rafforza a discapito di qualunque opposizione o minoranza. E l’astrusità dell’assegnazione per ambito delle proposte di legge, unita alla facoltà del Senato di avocarne altre per un parere, rende del tutto improbabile la tanto vantata accelerazione dei processi legislativi. Non parliamo poi dei criteri di scelta dei senatori, che riducono il già esiguo spazio di espressione della volontà popolare concesso dalla formula rappresentativa ai minimi termini.
Aumentando il numero delle firme necessarie per indire un referendum a 800.000, il “sequestro” dei processi decisionali da parte del governo diventa ancora più stringente. E l’obbligo di far discutere le leggi di iniziativa popolare dalla Camera è il classico specchietto per le allodole: dato il ferreo controllo dell’assemblea, saranno tutte respinte (a meno che non riguardino ambiti microsezionali, di scarsissimo interesse).
Il riordino delle competenze regionali, che avrebbe potuto essere opportuno, è volto, nel testo proposto, esclusivamente a bloccare anche su questo versante ogni ostacolo potenziale all’onnipotenza dell’esecutivo.
Chiamare tutto questo “deriva autoritaria” può essere eccessivo. Di certo è un “mani libere incondizionato” al governo. E io a nessun governo, ma meno che mai a quello di Renzi, di cui conosco a sufficienza personalità, modi di agire, amicizie e precedenti, sono disposto a concederlo. Senza contare che non ho mai ceduto al ricatto – imperversante da oltre vent’anni – della “minaccia di ingovernabilità”. Come Sartori, credo che una dose di instabilità sia preferibile alla stabilità di un cattivo, o pessimo, governo. E ho sempre preferito, alla “governabilità”, la capacità di rappresentare nel modo più fedele possibile le opinioni e le culture politiche presenti all’interno dell’elettorato (a proposito: chissà se qualche amico che si pensa ancora “missino nell’anima” e voterà sì si è mai chiesto cosa sarebbe accaduto del “suo” partito in un’Italia che avesse adottato una legge elettorale maggioritaria, soglie di sbarramento, premi di maggioranza…).
A convincermi ancor di più al voto NO sono anche alcuni degli stereotipi argomentativi dei renziani (di lungo corso e di complemento):
a) Non temo alcun salto nel buio. Non ritengo il M5S, né altri oppositori di Renzi, peggiori del PD e della sua attuale classe dirigente. Tutt’altro. Con i bistrattati populisti mi trovo spesso a concordare, pur non ignorandone i difetti. Con Renzi, Verdini, Alfano, Casini & Co. mi capita di trovarmi d’accordo una volta su 100, forse.
b) Non credo ad alcuna catastrofe economica nell’eventuale post-NO. Il catastrofismo si è già rivelato perdente nel dopo-Brexit. Malgrado il loro plebiscitario sostegno a Renzi, gli attori del “mercato” si adegueranno in fretta. Non hanno convenienza a fare altrimenti.
c) Non mi offende trovarmi su posizioni analoghe (anche) a persone che non stimo. Mi disgusterebbe molto di più stare dalla parte di Goldman Sachs e di tutte le altre banche d’affari, dell’ambasciata Usa, di Marchionne, dei commissari dell’UE, della Bce e di tutto il resto della congrega che tifa per il sì che avere per “alleati” (?) D’Alema, Fini & Co.
Mi fermo qui, anche se molto altro ci sarebbe da dire. Tuttavia, sospetto che vincerà il sì. Perché questo paese è rimasto essenzialmente democristiano, vive di furberie e di timori, adora plaudire al nuovo e praticare gli eterni vecchi vizi, si bea nel farsi abbindolare da promesse senza seguito e piccole gratificazioni periodiche, accetta in piena incoscienza continue politiche in deficit, se ne frega della crescente voragine del debito pubblico, convinto che tanto il Bel paese non fallirà mai, è soggiogato dal fascino di chi sa “parlar bene” e invita all’”ottimismo”. Ha plaudito a Berlusconi, lo farà anche con il suo clone.
A questa Italia sempiternamente democristiana si aggiungerà, in questa occasione, la destra peggiore, quella che ho sempre detestato: quella che nel fondo del suo animo detesta i ragionamenti e le discussioni e alla politica chiede una cosa sola: essere, gianninianamente, essere “lasciata in pace” ed avere governi che possano fare quello che vogliono, senza che nessuno disturbi il manovratore. Chissà che questa volta non abbia trovato un altro Uomo della Provvidenza. Beh, in fondo se lo meriterebbe.